Piattaforme social media e la colossale truffa ai danni dei Content Creator

Creator, Influencer. Persone che hanno dedicato, chi più chi meno, una parte della loro vita ad ottenere le competenze necessarie per inventarsi un lavoro che prima non era neanche lontanamente concepibile. Come negli anni ‘90 del secolo scorso è stato per i “DJ”, oggi abbiamo Youtuber, VTuber, Streamer, Cosplayer, e Content Creator di ogni sorta. Coadiuvati dalla diffusione di Internet, prima, e dagli smartphone, poi; arriva per loro la promessa fatta dai Social Media: il mondo a portata di mano, un luogo in cui creare una propria community di “follower” e amici con cui rimanere in contatto, a cui presentare i propri contenuti, la propria creatività in formato tascabile.

Un lavoro che richiede impegno e costanza pressoché incessanti, per continuare a creare contenuti che possano appagare il palato dei propri follower, che mantengano vivo l’interesse, l’originalità e che dimostrino il valore della propria creatività. Un lavoro che, nel tempo, si è complicato a causa di algoritmi studiati e realizzati appositamente per rendere sempre più difficile inquadrare la propria platea: la piattaforma diventa nemica, al lavoro già difficile si aggiunge il bisogno di fare un continuo “reverse engineering” dell’algoritmo, per comprendere come sfruttarlo e come poter continuare ad offrire il proprio Contenuto al pubblico.

In un mare magnum di difficoltà, profili falsi, truffe e bot, i Content Creator si fanno in quattro per raggiungere un livello di popolarità tale da poter monetizzare il proprio lavoro - perché sempre di lavoro parliamo. Da quelli con decine di migliaia di follower, a quelli con centinaia di migliaia o milioni di follower, ciò che cambia sono indubbiamente i guadagni e la gravità delle situazioni da gestire.

Tra impotenza e rassegnazione, i Content Creator si trovano ad affrontare in mare aperto coloro che pubblicano i loro contenuti senza attribuzione (in chiara violazione di tutte le condizioni di servizio di tutte le piattaforme), profili clonati o addirittura rubati. In questi casi, chi truffa o svolge attività illecite è un innovatore ossessivo compulsivo che non deve “perdere” tempo per costruire contenuti e può dedicarsi in tutto e per tutto a comprendere come sfruttare le piattaforme a proprio vantaggio.

Ma il vero truffatore, non è l’individuo che ruba profili o l’organizzazione che mette in piedi botnet di account falsi per “click farm” (magari su questo torneremo in futuro).

Il vero truffatore è niente meno che la “User Generated Content Platform” stessa.

Dietro promesse disattese di “accessibilità e visibilità” verso i propri follower e il pubblico generale, la Piattaforma si prende la libertà di applicare le proprie “regole della community” o “termini di servizio” a piacimento. Con poca o nessuna possibilità di appello, senza alcun supporto “Clienti” o “Creator”, gli utenti non hanno alcuna difesa di fronte a tragedie come trovare il proprio profilo sospeso o, peggio, cancellato.

Anni di lavoro e investimenti per creare contenuti completamente svaniti nel nulla. Poco chiara anche la motivazione dietro a sviluppi simili: una segnalazione? una questione algoritmica? Violazione dei termini e delle condizioni? Quali? Secondo quale principio? Sulla base di quale verifica di effettiva violazione?

Si può fare appello? Con una buona dose di culo, forse. Se si è fortunati, qualcuno leggerà uno dei messaggi di contatto o appello ma, per quanto possiamo vedere, l’unica via che permette un qualche tipo di riscontro è una lettera di un avvocato che deve raggiungere il contatto giusto (“deja-vu”?), essere letta, compresa (anche qui, “deja-vu”) ed eventualmente valutata.

Risultato? TikTok, Meta, X/Twitter, Pinterest, Tumblr sono tiranni consapevoli e incoscienti dei gruppi sociali che ospitano (salvo poche eccezioni).

La cosa ancora più ridicola è la crescente facilità con cui è possibile far chiudere un profilo “reale” segnalandolo come contenuto illegale, in violazione di copyright (sì, anche all’autore originale) o qualsiasi altra forma di inadeguatezza. Tutto è automatizzato, tutto è in contrapposizione a quanto stabilito nei termini e condizioni d’uso: chi pubblica (o re-posta) contenuti altrui senza attribuzione ha più potere di chi crea i contenuti stessi.

E sia chiara una cosa: i Contenuti hanno un valore economico sostanziale per le piattaforme. Tengono il pubblico attaccato alla Piattaforma, dando a quest’ultima la possibilità di rifilare più pubblicità al visitatore. Più i contenuti sono di qualità, maggiori sono le visualizzazioni, maggiori sono i profitti delle piattaforme.

Secondo uno studio pubblicato a fine 2023, nella fascia di età 0-17 anni, solo per il mercato degli Stati Uniti, le Piattaforme vantano profitti per miliardi di dollari all’anno[i]. Sarebbe da aprire un capitolo a parte sul tema “sfruttamento dei minori”.

Profitti, specifico, generati su diritti d’autore violati costantemente ed incessantemente, di cui le Piattaforme abusano truffando i Creator; talvolta facendosi addirittura pagare.

Creator e Influencer, a prescindere dalla propria dimensione e dai problemi di carattere reputazionale che possano avere, vivono grazie alla propria immagine. Perdere, di punto in bianco, il proprio canale di pubblicazione, significa dover ricominciare da zero. A volte anche in negativo.

I vizi ormai consolidati e imposti dalle Piattaforme “UGC” sono solo peggiorati negli anni. All’interno del processo che che Cory Doctorow[ii] ha definito “enshittification[iii] of social media”, le piattaforme preferiscono agevolare maggiormente coloro che vogliono creare profili fasulli e ripubblicare contenuti in violazione del diritto d’autore, piuttosto che proteggere i Content Creator originali. Il processo della “verifica del profilo” rasenta il ridicolo: passando dal canone proposto da “X/Twitter” (in cui, più che profilo verificato, potremmo definirlo profilo pagante) al “processo di verifica” per ottenere la famigerata spunta blu di Instagram; la quale richiede una “consolidata visibilità in rete e media tradizionali” (spoiler alert: basta comprare articoli su canali ritenuti validi, come Business Insider o Forbes, tanto per fare due nomi, su cui è possibile pubblicare contenuti sponsorizzati) e avere almeno 10k follower (in media), la cui la maggioranza potrebbe essere tranquillamente bot, considerata la quantità di servizi di “fake followers” che si trovano in Rete.

Le scuse dietro cui si nascondono le Piattaforme (codice di condotta, termini e condizioni, “fair use”, “Section 230”) crollano rovinosamente sotto il peso della fuffa con cui sono state scritte: copia-incolla in “legalese” di un testo che nessuno andrà mai a controllare. Ma anche andando a controllare... tanto chi si accerta che ciò che pubblico sia veramente mio o che io abbia i diritti per pubblicarlo? Mal che vada ciò che ho postato verrà rimosso dietro DMCA, e se il profilo venisse cancellato... basterà farsi una nuova casella di posta su Gmail e creare un profilo nuovo. O due. O cento.

Il fatto che non esista un processo di contestazione o appello supportato da fatti e prove ha del ridicolo, e conferma solo ed esclusivamente che lasciano correre le truffe perché “del resto, è un servizio gratuito”. Tuttavia, se una piccola impresa dovesse appropriarsi dei contenuti altrui o vendere servizi senza che questi venissero erogati correttamente, allora sì che ci si potrebbe rivalere.

Questo post nasce a seguito dell’osservazione dell’ennesimo caso di ban di un Creator su Instagram, ma casi simili si contano mensilmente a decine, tra tutte le piattaforme. Non ne faremo il nome perché non rappresentiamo formalmente la persona in questione, però possiamo portare la voce della categoria dei Creator e degli Influencer in digitale: il contenuto vale, la creatività vale, perché senza di esse, suddette piattaforme non esisterebbero e non avrebbero il potere che invece, puntualmente, usurpano.

Occorre, a nostro parere istituire e riconoscere un procedimento che consenta ad associazioni di categoria, agenzie o singoli Creator di esercitare i propri diritti. Un procedimento che avvenga attraverso canali che non rispondano con chatbot generici o per “numero di richieste”, bensì nel rispetto di quelle che sono le convenzioni internazionali sul commercio elettronico, del diritto d’autore e dei diritti di coloro che usano le piattaforme professionalmente. Soprattutto se consideriamo che spesso sono costretti a pagare le stesse per poter promuovere i propri contenuti.

i “Social media platforms generate billions of dollars in revenue from U.S. youth: Findings from a simulated revenue model”, Amanda Raffoul, Zachary J. Ward, Monique Santoso, Jill R. Kavanaugh, S. Bryn Austin, 27 December 2023, https://doi.org/10.1371/journal.pone.0295337 

iii “Enshittification” su Wikipedia https://en.wikipedia.org/wiki/Enshittification 

A proposito dell'Autore o Autrice

Sebastian Zdrojewski

Sebastian Zdrojewski

Founder, (He/Him)

Ha lavorato per 25 anni nel settore IT affrontando problemi di sicurezza informatica, privacy e protezione dei dati per le aziende. Nel 2017 fonda Rights Chain, un progetto che mira a fornire risorse e strumenti per il copyright e la protezione della proprietà intellettuale per i creatori di contenuti, gli artisti e le imprese.